l'evento
"Un altro mondo", di Stéphane Brizé
mercoledì 26 aprile, ore 21:00
Sala Nelson Mandela (via XXIV Maggio, 18)
Mercoledì 26 aprile, ingresso gratuito, in sala Nelson Mandela arriva per il ciclo "Cinema al Lavoro", all'interno di "Piacenza Collettiva", il film dii Stephané Brizé "Un altro mondo". In collaborazione con Cinemaniaci
Un manager locale di una multinazionale (Vincent Lindon) riceve il mandato, dai suoi superiori, di tagliare il personale, per assecondare un disegno produttivo troppo grande, troppo globale per fottersene del piccolo, dei problemi del singolo, delle persone.
Qui di seguito una recensione di Giulio Sangiorgio della rivista "Film Tv"
Oltre lo specchio. Sul fronte opposto. In guerra, dunque, ma non negli occhi e sui corpi degli operai. In Un altro mondo. Quello di un manager locale di una multinazionale (ancora un Vincent Lindon che è il film, il quinto con Stéphane Brizé), che riceve il mandato, dai suoi superiori, di tagliare il personale, per assecondare un disegno produttivo troppo grande, troppo globale per fottersene del piccolo, dei problemi del singolo, delle persone. E sì, anche di lui. 24 ore su 24, sette giorni su sette, con l’impegno di gestire risorse umane che per il capitale, umane, non lo sono: una responsabilità che, nel processo di continua delega, rimando, spostamento, astrazione del potere, finisce nelle sue mani, facendogli sfuggire, da queste - troppo stanche, iperoccupate, prese da altro e altri - la vita. Semplicemente. Un matrimonio finito (l’incipit è un’ulteriore économie du couple, titolo originale di Dopo il matrimonio di Joachim Lafosse), un figlio in burnout che pensa di poter parlare con Mark Zuckerberg come forma di rinascita (in una caricatura patologica e struggente dell’illusione neoliberale del voglio dunque posso, del tutto e subito, della smaterializzazione allucinata della realtà…). Uno spossessamento del quotidiano in nome del lavoro, una perdita drammatica del tempo (libero). Il consumo dei sentimenti. La verifica della resistenza di un uomo dentro la legge del mercato. Brizé sceglie, dopo il sindacalista di In guerra, di raccontare un’altra persona tra le parti, un mediatore, un persona che prova a tenere insieme capitale e umano, un oppresso dall’asettico mercato, come da quel che resta dell’empatia. Una persona, comunque, fuori luogo, né con gli uni né con gli altri. Un perdente. Che decide di prendere alla lettera, sul serio, la cantilena retorica del neoliberismo, ovvero quell’indecente e ricorrente «siamo tutti sulla stessa barca», quella bugia che deresponsabilizza il padrone e iperresponsabilizza l’operaio, quel motto ipocrita che delega alle spalle troppo piccole degli ultimi la sopravvivenza del proprio posto, l’esistenza della fabbrica, il perpetuarsi di una produzione: perché non tagliare, di poco, quanto basta, i bonus dei dirigenti, mettersi in gioco, scegliere una politica, cercare un altro mondo, trovare un luogo utopico nella distopia subdola che abitiamo, per salvare i lavoratori? La risposta è nella bocca di un dio del capitale dai modi gentili, uno spettro di pixel in videochiamata, uno che sta lontano, altrove, che parla in nome di un piano finanziario bigger than life, e di certo bigger dei propri finti buonisti propositi. È un film come sempre lineare, questo di Brizé, fondato su una ricerca documentaria e fatto di un realismo immersivo, teso, secco (anche se narrativamente aperto al melodramma, alla voce disperata, al rancore sociale, come un Loach). Un thriller morale. E un romanzo di formazione politica: per provare a uscire dal cul de sac del mercato, per tentare di vivere in un altro mondo, per giungere a un difficilissimo, oggi, «preferirei di no».
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